sabato 14 settembre 2013

KAREN: DALLA GIUNGLA A ROMA PER SFIDARE I DITTATORI BIRMANI


Chiara Mastrolilli de Angelis

 

KAREN: DALLA GIUNGLA A ROMA PER SFIDARE I DITTATORI BIRMANI


La guerra di liberazione Karen è una delle tante guerre dimenticate nel panorama mondiale.
Ex colonia britannica, la Birmania e le sue verdi foreste, ospitano da 60 anni una delle più deleterie lotte di indipendenza, balzata alla cronaca nell’agosto del 2007 e poi nuovamente caduta nell’oblio.
La storia della Birmania è quella di un paese che, dopo aver ottenuto l’indipendenza dal dominio coloniale inglese al termine del secondo conflitto mondiale, si è trovato a dover costruire daccapo la propria identità politica e sociale, difficile da raggiungere per diversi motivi, primo fra tutti le numerose e antichissime etnie che lo popolano.
In lotta dal 1949 contro il governo centrale di Rangoon, il popolo Karen continua a combattere nel suo piccolo angolo di paradiso non per soldi o potere, ma per difendere la propria cultura, la propria lingua, le proprie tradizioni e soprattutto la propria terra.
Acqua, idrocarburi, tek, pietre preziose e oro, queste sarebbero le ricchezze del popolo Karen se non fossero invece depredate da militari, businessmen senza scrupoli e compagnie multinazionali. Nonostante le pessime condizioni di vita, le risorse esigue, le malattie e le violenze subite i Karen non intendono arrendersi fino a quando il loro stato non verrà riconosciuto.
“La libertà non è un bene gratuito” – sostiene il colonnello Nerdah Mya – “e solo attraverso il sacrificio riusciremo ad ottenerla”.
Da queste parole si comincia ad intuire lo spirito instancabile del colonnello dell’Esercito di Liberazione Nazionale (KNLA) e del vice presidente dell’Unione Nazionale Karen (KNU), David Thackarbaw, esponenti della delegazione che nei giorni scorsi è stata ricevuta ufficialmente in Farnesina dal Sottosegretario agli Esteri, Stefania Craxi.
Soddisfatti dell’attenzione e della partecipazione sincera delle istituzioni italiane, i due esponenti del popolo Karen sono ansiosi di tornare nel proprio paese e dalle proprie famiglie, “visitate” dalle autorità thailandesi durante la loro assenza.
 “Fin dal 1949 il governo birmano ha cercato di controllare il nostro territorio e le nostre risorse naturali per sfruttarle in modo indiscriminato. Inoltre, una delle attività più lucrose per i generali di Rangoon, è la produzione e il traffico di stupefacenti, che noi Karen combattiamo da sempre”, dice il vice presidente Thackarbaw, “ma nonostante le difficoltà noi non lasceremo mai la nostra terra senza protezione e siamo pronti a combattere per la libertà, la dignità e l’indipendenza della nostra gente”.
Non c’è astio né agitazione nelle loro parole, ma l’intenzione di farsi ascoltare e di far conoscere le condizioni del proprio popolo, costretto a combattere una guerra silenziosa e dimenticata da molti ma non dalle multinazionali.
Nello stato Karen infatti passa un gasdotto voluto non soltanto dalla giunta birmana, ma anche dalla compagnia statunitense Chevron e dalla francese Total. Più a nord, lungo il fiume Salween, cinesi, birmani e thailandesi stanno per costruire una serie di dighe che rappresentano la nuova minaccia per la sopravvivenza e per il territorio dei Karen. Queste dighe infatti faranno letteralmente scomparire le loro terre.
“Le risorse del nostro paese sono ben note negli uffici di aziende cinesi, indiane, statunitensi, francesi, tedesche ed inglesi che difficilmente possono ignorare le condizioni di vita in cui versa il nostro popolo sia nella giungla che nei campi profughi”, continua il vice presidente del KNU, “100.000 Karen attualmente vivono nei campi profughi in territorio thailandese al quale siamo ovviamente grati, ma non si può dimenticare che le condizioni di vita in un campo sono assai dure, soprattutto per un popolo che chiede solo di poter vivere sulla propria terra secondo i propri costumi. Sovrappopolamento, promiscuità, mancanza di lavoro, mancanza di libertà di spostamento, abuso di alcol e negli ultimi anni anche di droga, tutte condizioni che tendono a distruggere la dignità di una persona”.
Ma nella giungla la situazione diventa ancora peggiore: “oltre confine, in territorio Karen, al momento ben 500.000 persone vivono la condizione di “profughi interni” (internally displaced persons, secondo la terminologia ONU). Intere famiglie devono lasciare i loro villaggi e i loro campi per cercare rifugio nella giungla con la speranza di  sfuggire alle violenze dell’esercito birmano”.
 “Deportazioni di interi villaggi, l’uso sistematico dello stupro come arma per terrorizzare e per distruggere i legami all’interno della comunità, le esecuzioni sommarie, le torture e l’utilizzo dei civili come schiavi e come scudi umani per aprire varchi in possibili terreni minati, questo tipo di ingiustizie sono all’ordine del giorno per noi, ormai da 60 anni” spiega il colonnello Nerdah Mya, “ma per un Karen allontanarsi dalla foresta o dalla giungla, significa rinunciare ad una parte di sé. Da sempre la giungla rappresenta per noi un luogo in cui trovare rifugio e mezzi di sostentamento. Questa gente chiede quindi a noi di essere protetta per non dover riparare in un paese straniero e per poter vivere senza doversi sporcare con il traffico della droga. Per noi Karen la droga è infatti la peggiore sciagura per il genere umano. La droga qui è una vera e propria arma utilizzata per distruggere la resistenza di un popolo e per annientare la dignità della sua gente, è un’arma nelle mani del regime”.
Ai Karen che lottano nella giungla manca tutto, dall’assistenza medica garantita unicamente dalle “cliniche volanti” che le organizzazioni amiche riescono ad organizzare, a cibo, medicine, vestiario e teli di plastica per costruire ripari facilmente trasportabili. “Nelle zone che ancora controlliamo”, continua il colonnello, “abbiamo creato villaggi agricoli per consentire alla popolazione di rendersi autosufficiente dal punto di vista alimentare, ma raramente le famiglie possono fermarsi a lungo in un luogo a causa delle incursioni birmane.
Si contano almeno 30.000 Karen in costante movimento nella giungla, in fuga nel proprio territorio”.
Pochi ancora sanno dei Karen e della loro guerra per la libertà, ma chi li conosce sa che sono un popolo di piccoli grandi eroi, abituati a combattere per mantenere integri i propri ideali.
I loro portavoce, il colonnello Nerdah Mya e il vice presidente Thackarbaw si preparano alla partenza, ma non prima di lasciarci il sentore di un coraggio e di ideali a noi ormai così lontani; soddisfatti delle iniziative allo studio riprendono la via che li porterà di nuovo tra i pericoli della loro giungla che per loro è e sarà sempre una terra per cui morire.



Era il 2009 quando scrivevo queste righe.
Dall’incontro con i rappresentanti Karen ne uscì un articolo lungo, più lungo degli standard consentiti dal menabò del quotidiano. Fui ripresa e dovetti fare alcuni tagli, nonostante i quali l’articolo continuò ad essere più lungo del normale.
Ma c’erano tante cose da dire e tante cose da spiegare e la redazione alla fine acconsentì a pubblicarlo.
Dal 2009 ad oggi tante cose sono cambiate ma nessuna in modo così risolutivo da consentire al popolo Karen di vivere la propria libertà.
Molti di loro sono morti; alcuni si sono arresi e hanno abbandonato la giungla abbandonandosi alla “lusinga” dei campi profughi e al miraggio di villette a schiera che li hanno resi schiavi per la vita; un premio Nobel è stato assegnato mentre il colonnello Nerdah Mya, oggi generale del KNLA, continua a combattere per la libertà del suo popolo.
Non c’è un motivo particolare per scrivere oggi queste righe perché nulla è cambiato: la guerra dei Karen continua a non fare notizia.
O forse è proprio questo il motivo: certe cose non devono essere dimenticate, certe guerre e certi valori valgono troppo per non ricordarli di tanto in tanto.
Ecco allora perché oggi forse vale la pena di ricordare, con poche righe, un articolo vecchio di anni.

lunedì 9 settembre 2013