Chiara
Mastrolilli de Angelis
KAREN: DALLA GIUNGLA A ROMA PER SFIDARE I DITTATORI BIRMANI
La guerra di liberazione Karen è
una delle tante guerre dimenticate nel panorama mondiale.
Ex colonia britannica, la Birmania
e le sue verdi foreste, ospitano da 60 anni una delle più deleterie lotte di
indipendenza, balzata alla cronaca nell’agosto del 2007 e poi nuovamente caduta
nell’oblio.
La storia della Birmania è quella
di un paese che, dopo aver ottenuto l’indipendenza dal dominio coloniale
inglese al termine del secondo conflitto mondiale, si è trovato a dover
costruire daccapo la propria identità politica e sociale, difficile da
raggiungere per diversi motivi, primo fra tutti le numerose e antichissime
etnie che lo popolano.
In lotta dal 1949 contro il governo
centrale di Rangoon, il popolo Karen continua a combattere nel suo piccolo
angolo di paradiso non per soldi o potere, ma per difendere la propria cultura,
la propria lingua, le proprie tradizioni e soprattutto la propria terra.
Acqua, idrocarburi, tek, pietre
preziose e oro, queste sarebbero le ricchezze del popolo Karen se non fossero
invece depredate da militari, businessmen senza scrupoli e compagnie
multinazionali. Nonostante le pessime condizioni di vita, le risorse esigue, le
malattie e le violenze subite i Karen non intendono arrendersi fino a quando il
loro stato non verrà riconosciuto.
“La libertà non è un bene
gratuito” – sostiene il colonnello Nerdah Mya – “e solo attraverso il
sacrificio riusciremo ad ottenerla”.
Da queste parole si comincia ad
intuire lo spirito instancabile del colonnello dell’Esercito di Liberazione
Nazionale (KNLA)
e del vice presidente dell’Unione Nazionale Karen (KNU), David Thackarbaw,
esponenti della delegazione che nei giorni scorsi è stata ricevuta
ufficialmente in Farnesina dal Sottosegretario agli Esteri, Stefania Craxi.
Soddisfatti dell’attenzione e
della partecipazione sincera delle istituzioni italiane, i due esponenti del
popolo Karen sono ansiosi di tornare nel proprio paese e dalle proprie
famiglie, “visitate” dalle autorità thailandesi durante la loro assenza.
“Fin dal 1949 il governo birmano ha cercato di
controllare il nostro territorio e le nostre risorse naturali per sfruttarle in
modo indiscriminato. Inoltre, una delle attività più lucrose per i generali di
Rangoon, è la produzione e il traffico di stupefacenti, che noi Karen
combattiamo da sempre”, dice il vice presidente Thackarbaw, “ma nonostante le
difficoltà noi non lasceremo mai la nostra terra senza protezione e siamo
pronti a combattere per la libertà, la dignità e l’indipendenza della nostra
gente”.
Non c’è astio né agitazione nelle
loro parole, ma l’intenzione di farsi ascoltare e di far conoscere le
condizioni del proprio popolo, costretto a combattere una guerra silenziosa e
dimenticata da molti ma non dalle multinazionali.
Nello stato Karen infatti passa un
gasdotto voluto non soltanto dalla giunta birmana, ma anche dalla compagnia
statunitense Chevron e dalla francese Total. Più a nord, lungo il fiume
Salween, cinesi, birmani e thailandesi stanno per costruire una serie di dighe
che rappresentano la nuova minaccia per la sopravvivenza e per il territorio
dei Karen. Queste dighe infatti
faranno letteralmente scomparire le loro terre.
“Le risorse del nostro paese sono
ben note negli uffici di aziende cinesi, indiane, statunitensi, francesi,
tedesche ed inglesi che difficilmente possono ignorare le condizioni di vita in
cui versa il nostro popolo sia nella giungla che nei campi profughi”, continua
il vice presidente del KNU, “100.000 Karen attualmente vivono nei campi
profughi in territorio thailandese al quale siamo ovviamente grati, ma non si
può dimenticare che le condizioni di vita in un campo sono assai dure,
soprattutto per un popolo che chiede solo di poter vivere sulla propria terra
secondo i propri costumi. Sovrappopolamento, promiscuità, mancanza di lavoro,
mancanza di libertà di spostamento, abuso di alcol e negli ultimi anni anche di
droga, tutte condizioni che tendono a distruggere la dignità di una persona”.
Ma nella giungla la situazione diventa ancora peggiore:
“oltre confine, in territorio Karen, al momento ben 500.000 persone vivono la
condizione di “profughi interni” (internally
displaced persons, secondo la terminologia ONU). Intere famiglie devono
lasciare i loro villaggi e i loro campi per cercare rifugio nella giungla con
la speranza di sfuggire alle violenze
dell’esercito birmano”.
“Deportazioni di
interi villaggi, l’uso sistematico dello stupro come arma per terrorizzare e
per distruggere i legami all’interno della comunità, le esecuzioni sommarie, le
torture e l’utilizzo dei civili come schiavi e come scudi umani per aprire
varchi in possibili terreni minati, questo tipo di ingiustizie sono all’ordine
del giorno per noi, ormai da 60 anni” spiega il colonnello Nerdah Mya, “ma per
un Karen allontanarsi dalla foresta o dalla giungla, significa rinunciare ad
una parte di sé. Da sempre la giungla rappresenta per noi un luogo in cui
trovare rifugio e mezzi di sostentamento. Questa gente chiede quindi a noi di
essere protetta per non dover riparare in un paese straniero e per poter vivere
senza doversi sporcare con il traffico della droga. Per noi Karen la droga è
infatti la peggiore sciagura per il genere umano. La droga qui è una vera e
propria arma utilizzata per distruggere la resistenza di un popolo e per
annientare la dignità della sua gente, è un’arma nelle mani del regime”.
Ai Karen che lottano nella giungla manca tutto,
dall’assistenza medica garantita unicamente dalle “cliniche volanti” che le
organizzazioni amiche riescono ad organizzare, a cibo, medicine, vestiario e
teli di plastica per costruire ripari facilmente trasportabili. “Nelle zone che
ancora controlliamo”, continua il colonnello, “abbiamo creato villaggi agricoli
per consentire alla popolazione di rendersi autosufficiente dal punto di vista
alimentare, ma raramente le famiglie possono fermarsi a lungo in un luogo a
causa delle incursioni birmane.
Si contano almeno 30.000 Karen in costante movimento nella
giungla, in fuga nel proprio territorio”.
Pochi ancora sanno dei Karen e della loro guerra per la
libertà, ma chi li conosce sa che sono un popolo di piccoli grandi eroi,
abituati a combattere per mantenere integri i propri ideali.
I loro portavoce, il colonnello Nerdah Mya e il vice
presidente Thackarbaw si preparano alla partenza, ma non prima di lasciarci il
sentore di un coraggio e di ideali a noi ormai così lontani; soddisfatti delle
iniziative allo studio riprendono la via che li porterà di nuovo tra i pericoli
della loro giungla che per loro è e sarà sempre una terra per cui morire.
Era il 2009 quando scrivevo queste righe.
Dall’incontro con i rappresentanti Karen ne uscì un articolo
lungo, più lungo degli standard consentiti dal menabò del quotidiano. Fui
ripresa e dovetti fare alcuni tagli, nonostante i quali l’articolo continuò ad
essere più lungo del normale.
Ma c’erano tante cose da dire e tante cose da spiegare e la
redazione alla fine acconsentì a pubblicarlo.
Dal 2009 ad oggi tante cose sono cambiate ma nessuna in modo
così risolutivo da consentire al popolo Karen di vivere la propria libertà.
Molti di loro sono morti; alcuni si sono arresi e hanno
abbandonato la giungla abbandonandosi alla “lusinga” dei campi profughi e al
miraggio di villette a schiera che li hanno resi schiavi per la vita; un premio
Nobel è stato assegnato mentre il colonnello Nerdah Mya, oggi generale del
KNLA, continua a combattere per la libertà del suo popolo.
Non c’è un motivo particolare per scrivere oggi queste righe
perché nulla è cambiato: la guerra dei Karen continua a non fare notizia.
O forse è proprio questo il motivo: certe cose non devono
essere dimenticate, certe guerre e certi valori valgono troppo per non
ricordarli di tanto in tanto.
Ecco allora perché oggi forse vale la pena di ricordare, con
poche righe, un articolo vecchio di anni.
Nessun commento:
Posta un commento
contro ogni muro, per la libertà dei popoli.